Questo è una riflessione che ho scritto il 4 giugno 2021, con l’animo ancora scosso e ferito per i fatti del 31 maggio, di abbattimento di querce e alberi dentro la Riserva per la costruzione del Pendolo. Mi chiedo se all’epoca chi fosse responsabile dei lavori fosse lucido di mente o meno.
ABBATTIAMOLI! Questo deve essere stato il grido di guerra con cui un brutto lunedì mattina di maggio, appena dopo le tenebre della notte, l’impresa aggiudicataria del bando, si è presentata con camion, ruspe e motoseghe, all’ingresso della Riserva Naturale Regionale Pineta Dannunziana, sul lato che dà su Via Pàntini. Sistemato sulla recinzione più esterna il cartello di cantiere, evidentemente pronto da parecchi giorni, le maestranze, superato l’ingresso dell’area sgambettamento cani, si sono chiuse dentro, con tanto di filo di ferro ai cancelli, e rimasti soli con gli alberi hanno iniziato la mattanza verde.
Senza incertezze e senza pietà, i denti aguzzi e taglienti, ancorati sulle catene delle ululanti motoseghe, hanno cominciato a mordere la corteccia di querce e pini, fino a profanare il limite vitale del floema, attraversare il cambio, e infine sprofondare tra le spirali dello xilema per giungere fino al midollo. È la morte!
Decine e decine, fino a centinaia di anni di lenta crescita annullati in pochi secondi da un furibondo impeto distruttivo. Incastri epigei e ipogei, intricati grovigli di rami, radici e ife fungine, le cui funzioni sono per certi versi ancora sconosciuti alla scienza, squartati dai denti delle benne meccaniche, tra stridore di cingolati e schiantarsi di fronde.
Qualcuno, dalle stanze che contano, deve aver detto all’impresa di fare in fretta: “Mi raccomando: un lavoro rapido e deciso, senza sottilizzare su età , dimensioni, portamento, specie, senza preoccuparsi della presenza di residenti e ospiti, di famiglie e generazioni. Spianate la strada!“
Si, la strada. Perché è proprio una strada di asfalto nero, il Pendolo, quella che le carte di oggi prevedono prenda il posto di 400 metri lineari di area protetta, per almeno 10 di larghezza, perché sia percorsa ogni giorno, tra un senso e l’altro, da 30 mila mezzi motorizzati: oltre 10 milioni in un anno! Passeranno lì, dove oggi c’è un bosco!
Qualcuno, un giorno e in una stanza, con mano ferma, decisa e consapevole deve aver indicato al progettista di turno il percorso esatto: non fuori dai confini della Riserva Naturale Regionale Pineta Dannunziana, ma dentro, nelle adiacenze di un vecchio e malmesso recinto di cemento messo lì a segnalare chissà quale remoto confine catastale. E’ bastato un dito, prima ancora della motosega, a segnare il destino di antichi alberi!
Dal 2000, anno di istituzione dell’area protetta, già abbondantemente erosa negli anni da edifici residenziali e percorsi stradali oltre che da una persistente incuria, ricerche e studi si sono susseguiti nel tentativo di restituire dignità e unicità ai diversi comparti. Nessuno di tutti coloro che hanno dato il proprio contributo di conoscenze e proposte per la predisposizione dello strumento di governo di quel territorio si sarebbe mai aspettato che per eliminare una vecchia strada un giorno un sindaco avrebbe assecondato e consentito la costruzione di una nuova, non fuori ma dentro.
E’ come se le decine e decine di pagine di analisi e di valutazioni contenute nel Piano di assetto naturalistico, il PAN, si fossero dissolte nel nulla al cospetto di una testatina e di un elemento grafico in bozza, fatto di grossolane linee e campiture colorate, che invece hanno cromaticamente raccolto l’attenzione del decisore di turno e che oggi vengono sventolate nella loro indefinita e remota rappresentazione come legittima, unica e ultima ragione del progetto.
L’imperativo del “fare costi quel che costi” ha prevalso sul buon senso, offuscando lo scenario del bene e del meglio, consegnando all’intera comunità una ferita che rimarrà aperta nel territorio per gli anni futuri, e che più di ogni altra targa vergata a mano ricorderà ai passanti questa triste epoca di mancato amore per la città!
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