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La Ciclovia del Sole (da Bologna)

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Pubblico volentieri il report ciclistico del mio amico pescarese Eugenio Di Ruscio

Nonostante i resoconti contrastanti dei geografi ufficiali l’accesso alla Ciclovia del Sole da Bologna non è agevole. Si può effettivamente partire da Porta San Felice e fare la Via Saffi, che poi diventa l’Emilia Ponente, che sarebbe anche bella, ma il fondo è disastrato e il traffico non è invitante. Perciò io sono partito da Porta San Felice e ho preso la ciclabile di Via Sabotino, sotto la quale scorre il Canale di Reno, senza le cui acque Bologna morirebbe di sete (e perciò in un vicino futuro soffrirà la sete) e l’ho percorsa fino alla Crocetta, ho attraversato il Canale, o oggi purtroppo la Via Sabotino, e ho preso la ciclabile di Via delle Tofane. Poco prima della Certosa il Canale di Reno è ancora scoperto e rimane tale fino alla Chiusa di Casalecchio, offrendo un bello scorcio al ciclista al principio dello sforzo.

Il Canale di Reno all’uscita dall’angolo sud est della Certosa.

La ciclabile tra il Giardino del Ghisello e il Parco Zanardi

Il Canale di Reno corre lungo il lato sud della Certosa, e quando questa finisce, sulla destra si vede il Parco di Villa Serena, e sulla sinistra, oltrepassata Via della Barca, costeggio il Giardino del Ghisello, e poi avanti, il Parco Zanardi, e di giardino in giardino, oltrepasso Via Caravaggio con un sottopasso per uscire in Via dei Canonici Renani, ormai a Casalecchio.

Qui si vedono le strutture idrauliche del Canale di Reno, a valle della Casa del ghiaccio e del Paraporto San Luca, di fianco alla Casa della Pace:

 Il Canale di Reno e la Casa della Pace in Via dei Canonici Renani

In questo modo arrivo con percorso protetto fino al Reno di Casalecchio, e lo oltrepasso sul ponte ciclopedonale strallato. Il Reno, nonostante la scarsità d’acqua, riflette il cielo.

Esco a Casalecchio nel tratto minuscolo di Via Passo della Canonica che si immette in via Garibaldi. Questa è una zona di Casalecchio periferica, ma dalla parte del fiume, residenziale. Ci sono villette sul lato sinistro di Via Garibaldi, che nel primo novecento furono costruite per onorare la vocazione di luogo di villeggiatura “marina”, o fluviale, di Casalecchio. Qui i benestanti bolognesi si trasferivano d’estate, percorrendo i 5 – 10 km dalla casa di residenza, o qualche chilometro in più i possidenti delle zone piatte attorno, e godevano della frescura del fiume, che mai è stato abbondante, tranne nelle rovinose piene, ma insomma il suo mestiere l’ha fatto e nella calura bolognese era effettivamente un luogo attraente (per approfondire).

Uso Via Isonzo per uscire da Via Garibaldi, e poi imbocco la Via Sessantatreesima Brigata Bolero (in ricordo del Comandante di una Brigata partigiana). Uscito da Via Isonzo, alla rotonda, mi dirigo a nord, lungo una ciclabile disegnata, ricavata nell’estremo limite della corsia di destra di Via Brigata Bolero. Il fatto è che questa corsia di destra è quella prevista per chi, imboccando lo svincolo dello stradone, voglia prenderlo per andare verso Bologna in una strada a scorrimento veloce. Perciò, in prossimità dello svincolo, il disegno della pista ciclabile fa una curva verso sinistra, attraversa la corsia destra delle auto, e si pone a fianco della corsia sinistra, e lì rimane per tutto il ponte sullo stradone, consentendo alle auto che vogliano imboccarlo nella direzione opposta, verso Bazzano, di sorpassare le bici sulla destra. Dunque sul ponte la ciclabile è in mezzo a due corsie di automobili. Non è bello e non è sicuro, ma la segnaletica orizzontale non fa che mostrare qual è il comportamento da tenere in assenza di attraversamenti protetti di svincoli. Ora, questo minimo sforzo delle amministrazioni comunali nell’istruire chi circola sul comportamento auspicabile degli stessi, è particolarmente inviso ad alcuni automobilisti. Essi pensano che la pericolosità sia data dalla ciclabile disegnata, che autorizzerebbe il ciclista ad usare la strada, mentre dovrebbe comportarsi come un pedone, e aggirare un centinaio di metri di strada percorrendo a piedi un chilometro con la bici al fianco, poiché il diritto ad andare per strada è stato acquistato gratis solo da chi ha comprato un’auto, e chi non l’ha fatto deve essere punito. Questa è la loro profonda convinzione. Contro di essa non c’è niente da fare, forse una campagna di stampa del ministero dei trasporti? Una rieducazione degli insegnanti delle scuole guida? In ogni caso, se si guarda dritto davanti, e si assume un atteggiamento indifferente agli sguardi stizziti degli automobilisti che essendo in attesa del verde hanno tempo per disprezzare i ciclisti, si riesce a oltrepassare il ponte.

Dal ponte sullo stradone al semaforo c’è un chilometro e mezzo, sempre su una pista disegnata, ma abbastanza larga e purtroppo dissestata. Ci sono case sulla destra, ma che si diradano, e sulla sinistra la ferrovia. Al primo semaforo giro a sinistra e, su un ponte di frequente e recente ristrutturazione, ma che non ha reso il fondo neanche minimamente decente, oltrepasso la ferrovia che va a Casteldebole e il ramo dell’autostrada che collega Casalecchio  all’ A14. A Bologna l’autostrada è una presenza costante. Sempre la si attraversa.

Percorro tutta Via Olmetola, dove improvvisamente la città scompare e sulla destra, verso nord, ci sono campi a perdita d’occhio, che non è molto lontano, perché il terreno è piatto.

Via Olmetola, sulla destra si vede una chiesetta sconsacrata

Via Olmetola è stretta ma bella, e costellata di aziende agricole, ma poi termina improvvisamente nella Via Rigosa, che molti camionisti percorrono per spostarsi tra la nuova Bazzanese e la Via Emilia e viceversa. Sono TIR, pesanti, la via è in buone condizioni, ma non ha banchina e il passaggio di un tir a 60-70 all’ora sposta leggermente la bicicletta. Perciò gli 850 metri di via Rigosa devono essere percorsi con una certa fiducia nella propria abilità di mantenere la bicicletta in equilibrio.

Sulla Via Rigosa costeggio a sinistra il Torrente Lavino, che nel passato remoto scavò la vallata a ovest parallela alla Valle del Reno. Ora è un rigagnolo, che dalle parti di Calderino conserva un letto largo, polveroso e pietroso, così come il Samoggia, nella vallata immediatamente a ovest. Sono torrenti che una volta arrivati in pianura spesso sono trasformati in canali, rettilinei, raddrizzati alle esigenze dell’agricoltura, e frequentemente deprivati di acqua da canali artificiali a scopo irriguo. Quasi tutta questa parte della pianura è stata soggetta a un rimaneggiamento secolare, e i vecchi corsi dei fiumi sono spesso stati abbandonati. Cosicché la Via di Cadriano, una decina di km a nordest da dove mi trovo, costeggia il Savena Abbandonato. Anche a Ravenna c’è una via che si chiama Via del Fiume Abbandonato. Il toponimo non indica un fiume tristemente abbandonato dai pesci, dagli uccelli acquatici, dalle barche e dall’attività dell’uomo, ma il letto di un fiume abbandonato dall’acqua, che è stata deviata verso altre zone agricole più bisognose di acqua. Sempre a Ravenna, c’è Via dei Fiumi Uniti, che costeggia il corso unificato, prima della foce, dei torrenti Montone e Bidente, che passano a ovest e est di Forlì, rispettivamente, mentre ancora non sospettano, più a valle, di unirsi.

Percorsi gli 850 metri obbligatori di Via Rigosa, mi fermo e attraverso al strada a piedi per attraversare un ponte di ferro sul Lavino, a senso unico alternato, che mi consente di accedere a Via Mincio, una strada rettilinea di campagna che in meno di un chilometro si inerpica in un cavalcavia che oltrepassa il ramo nord ovest dell’autostrada adriatica e, per farlo raggiunge la quota di 54 metri sul livello del mare. Il terreno circostante è a una decina di metri più in basso, e questo dislivello offre una vista ampia sui campi coltivati.

Anche Via Mincio termina con un tratto rettilineo. Malauguratamente quando l’hanno progettata dovevano essere a corto di campi da coltivare, cosicché l’hanno fatta larga quanto basta per una sola automobile. Cosicché se fate questo tratto, e in cima al cavalcavia vedete che una macchina proveniente da ovest è entrata in Via Mincio e viene verso di voi, o dalle vostre spalle un’altra si avvicina, aspettate che tutta la strada sia libera, prima di lanciarvi in una veloce discesa nella speranza di arrivare all’incrocio prima di altri motorizzati. Se non ce la fate conviene fermarsi e far passare l’automobile, ché l’automobilista non possiede il controllo fine del mezzo, ed è bene impersonare la parte di un elemento immobile ai margini della strada, per facilitargli il passaggio senza contatto.

Via Mincio immette in Via Masini. È questa anch’essa una strada rettilinea, senza banchina, ma che più avanti si trasforma in una strada alberata, con un angusto marciapiede/ciclabile. Tuttavia il traffico è praticamente assente e quello che c’è non è pesante, così da permettere di non utilizzare la ridicola ciclabile, di guardarsi attorno e apprezzare le dimore di campagna in disuso.

L’ultimo tratto di Via Masini prende il nome di Via Giacomo Matteotti e porta all’attraversamento della vecchia, una volta bellissima, Via Emilia, quasi all’estremo est dell’abitato di Lavino di Mezzo.

Spesso, sull’appennino emiliano-romagnolo, ci sono questi paesi, o contrade, dal nome comune e dalla specificazione superiore, o montana, e inferiore, o di piana. Così nel reggiano c’è Castelnuovo ne’ Monti, e nella bassa c’è Castelnuovo di Sotto. Lungo il Navile, a nord di Bologna, c’è Sabbiuno di Pianura, e sui colli fuori Porta San Mamolo, c’è Sabbiuno di Montagna, a Ozzano, venendo da Ponte Rizzoli si percorre Via Tolara di Sotto, e poi, attraversata la via Emilia da nord a Sud, per salire a Settefonti si percorre Via Tolara di Sopra, scalando la strada di fianco ai calanchi del contrafforte pliocenico.

Ma qui mi trovo davanti a Lavino di Mezzo. Se c’è Lavino di Mezzo, devono esserci Lavino di Sopra e Lavino di Sotto, facendo del toponimo Lavino quello più estesamente utilizzato, almeno dal punto di vista idrografico.

Una breve ricerca mostra che se è esistita Lavino di Sopra, e certamente lo è, oggi non è più riconoscibile essendo la ex contrada totalmente inglobata nell’abitato di Zola Predosa (che sorprendentemente si dichiara, nei cartelli ai suoi ingressi “città del vino”, pur non vantando eccezionali vitigni né autoctoni, né importati – cioè, è pieno di vigneti, ma non ho mai bevuto un vino di Zola Predosa, né nessuno me ne ha mai decantato le virtù distintive, ma l’esperienza personale potrebbe non essere statisticamente rilevante). Dunque era un di sopra sui generis, al limitare estremo dell’inizio della collina. Nel territorio comunale di Osteria Nuova c’è una contrada Lavino, ed è evidentemente l’antica Lavino di Sotto. Il limite sud della Ciclovia del sole è lì. Lì devo andare.

Intanto il Lavino, che avevo abbandonato per svoltare in Via Mincio, più avanti ha piegato anche lui a sinistra, e si è affiancato alla Via Matteotti, che oltrepassa la Via Emilia a metà della salita del ponte sul Lavino. Se è rosso, di qui non ripartite. Attraversate a piedi.

Dall’altro lato della Via Emilia, che qui si chiama Marco Emilio Lepido, si arriva in uno slargo da dove si prende l’argine sinistro del Lavino, asfaltato, e si vede il primo segnale sull’asfalto della Ciclovia del Sole, un sole giallo che nella foto di seguito si intuisce solo:

L’immagine è rivolta a sud, si vede il ponte di Via Marco Emilio Lepido attraversare il Lavino.

Proseguo lungo l’argine, che poco dopo scende nella strada di fianco che va nel sopraelevato PM di Lavino. PM sta per Posto di Manovra. Qui ci sono caseggiati ferroviari vecchi, misti o integrati con colate di cemento che sorreggono la ferrovia standard e l’adiacente dell’alta velocità. Il Posto di Manovra non ha alcuna pretesa di attirare folte schiere di pubblico, perciò il piazzale tra i capannoni è polveroso, in evidente costante rifacimento, e senza un’indicazione visibile. Solo dopo due o tre andirivieni tra l’estremo muro di cemento a ovest e l’imbocco del Posto di Manovra scopro un viottolo che costeggia a sud il PM e dopo un centinaio di metri svolta ad angolo retto a nord, e conduce in un fetido, oscuro, umido e a tratti fangoso sottopassaggio che consente l’attraversamento delle linee ferroviarie. Sono circa cento metri. I successivi tre chilometri sono di pura gioia ciclistica. La strada è in leggera pendenza, riparata dal vento dall’argine serpeggiante del Lavino, e pure essa serpeggia, e fa curve ampie, il che consente un’andatura superiore ai 30 all’ora su un fondo quasi buono.

Poi la strada piega ad angolo acuto a destra e attraversa con un ponte il Lavino e si dirige dritta verso Sacerno. Arrivo all’incrocio con la strada che viene da questo borghetto, lo guardo e vedo una bella torre tonda. Non era prevista la visita al borghetto, ma sono incuriosito.

Il campanile e la chiesa di Sacerno

E questo cartello turistico è l’unica fonte di informazioni su Sant’Elena prima dell’epoca cristiana. La pro loco di Calderara di Reno fornisce notizie a partire dal 470 dopo cristo: http://www.prolococalderara.it/la-rotonda-e-la-chiesa-di-santelena-in-sacerno/. Dunque secondo il misterioso estensore del cartello qui i celti, che saranno stati i galli, che hanno frequentato il luogo per qualche secolo, a partire dal 400 a. c., veneravano un dio cornuto, e il nome ha a che fare con le corna . Tuttavia la prima parte di questo nome, fu, in epoca cristiana, preceduto dal titolo San in modo da inglobare il dio celtico nel paradiso cristiano. Ma nel periodo intercorso tra la trasformazione di Cernunnos in San Cerno, intanto nello stesso posto faceva le riunioni il primo triumvirato, quello tra Cesare, Pompeo e Crasso, che è del 60 a. c. Tuttavia, a smentire il cartello, un altrettanto sconosciuto autore del 1844 attribuisce al luogo l’onore di aver ospitato non il primo, ma il secondo triumvirato, quello tra Ottaviano, Marcantonio e Marco Antonio Lepido, che è del 43. In ogni caso questo posto così tranquillo e ameno è stato un crocicchio trafficatissimo, dove si incontravano dei celtici e cornuti e santi, imperatori e triumviri. Successivamente i fedeli cristiani costruirono la pregevole base rotonda del campanile, e più tardi il campanile, che ospita addirittura una campana del 1300, secondo il cartello. Eppure l’esistenza del luogo è ignota ai più, eppure il posto è effettivamente bello.

Lascio alle mie spalle il luogo pieno di storia

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