Una riflessione sul presunto utilizzo per finalità energetiche del verde pubblico dismesso
Che in città sia in corso da tempo una febbrile attività lavorativa pubblica intorno al patrimonio verde urbano è evidente. Da quel che si riesce a vedere e a capire, si tratta soprattutto di interventi, svolti lungo strade o piazze, di rimozione di individui arborei ritenuti per qualche motivo non sani, poi sostituiti quando è stato valutato necessario e possibile. La stessa cosa è avvenuta, anzi avviene ancora e accadrà di nuovo, per questioni di sicurezza: alberi rimossi perché presunti pericolosi per l’incolumità dei cittadini. Altre volte si è intervenuti per l’adeguamento funzionale di servizi, come nel caso di reti fognarie, o per la realizzazione di nuove infrastrutture viarie o insediamenti residenziali.
Caso a parte è la Riserva Dannunziana, interessata da un incendio pochi anni fa, ma anche da un attraversamento stradale lato monte, che ha visto l’asportazione di numerosi individui adulti, sia danneggiati, per via del fuoco, che sani, per far spazio ad una arteria viaria (il Pendolo).
Quel che si nota è che le piante, soprattutto querce, pini, e tamerici, vengono sovente “scambiate” con altre specie che si ritiene siano in grado di “sopravvivere” meglio in un ambiente antropizzato e che, durante la loro crescita, non arrechino danni con fronde e radici (in alcuni atti comunali definiti come “dissesto arboreo”) e che in aggiunta siano paesaggisticamente d’effetto, sia per il portamento che per il cromatismo.
Tante situazioni diverse, quindi, ma che potrebbero tutte far capo a scelte di buon senso o di opportunità, specie se completate con un bilanciamento almeno aritmetico tra vecchie e nuove essenze. Ma a mio avviso c’è anche un altro fattore che le accomuna: l’asportazione di biomassa vegetale, che si traduce sempre nella rimozione dell’anidride carbonica fissata lì dentro da un lungo processo fotosintetico.
Al riguardo mi sono sempre chiesto: ma che fine ha fatto e fa tutta questa biomassa? Dov’è finita e dove finisce? Ci sono dati sul quantitativo, sia in termini di individui ma anche di peso e soprattutto di carbonio, che gli alberi rimossi hanno estratto, in un tempo dilatato, dall’atmosfera? Esiste un bilancio di massa che consenta di dire quanta CO2 queste piante hanno accumulato nei loro tessuti? Aggiungerei ancora: e che uso ne è stato fatto? Al di là dei processi di decomposizione naturale di fondo, ne è stata mantenuta il più possibile la componente di materia, trattenendo e non disperdendo il contenuto in carbonio, ad esempio con processi di compostaggio verde o anche trasformando il legname in manufatti e utensili vari, o è stata scelta l’opzione della combustione, ottenendo certamente energia ma anche liberando CO2?
In altri termini: in tutti questi casi, sono state adottate decisioni ispirate ai principi di “resilienza”, e cioè del “non fare scelte che danneggino l’ambiente” a cui ad esempio rimandano tutti i finanziamenti del PNRR (DNSH, do non significant harm)? O no? La sola sostituzione delle essenze rimosse, anche con numeri multipli, è sufficiente a dare una risposta positiva? Non credo, soprattutto nel caso sia stata adottata una gestione della biomassa asportata per finalità energetiche.
E se la biomassa fosse andata in “fumo“, e sarebbe opportuno venisse esplicitato o meno con numeri alla mano, è stata fatta una valutazione del valore negativo di sostenibilità ambientale della CO2 reintrodotta in atmosfera? Si è in grado di fornire dati al riguardo? Quanto è in corso in città, e a breve quanto ci si appresta a fare all’interno della Riserva Dannunziana in termini di rimozione della biomassa “morta”, ha come base il principio di preservare la “materia” o si è già nell’ottica, consapevolmente o meno, di mandare tutto in fumo?
Ecco, un bilancio in tal senso aiuterebbe meglio a capire, al di là di proclami, premi e del fascino del nuovo, il grado di sostenibilità ad oggi raggiunto nella gestione del patrimonio verde pubblico.
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