L’overshoot day: una pericolosa
ordinaria emergenza
Due recenti fatti: l’overshoot day del 6 maggio scorso e una intervista all’urbanista Elena Granata hanno stimolato alcune mie riflessioni che di seguito riporto.
L’Italian Overshoot Day, calcolato dal Global Footprint Network, segna la data in cui il nostro Paese esaurisce le risorse naturali che la Terra riesce a rigenerare in un anno, se tutti vivessero come gli italiani. Nel 2025 è caduto il 6 maggio, più in anticipo rispetto al 2024 (19 maggio). Dopo questa data, il nostro Paese vive a debito con le generazioni future, consumando tre volte le risorse disponibili. Le cause sono l’eccessivo consumo di risorse naturali, il consumo di suolo e l’iperproduzione.
Forse contrariamente a quanto ci si potrebbe aspettare, le città, come concentrazione di attività e persone, sono al centro di questa crisi. Ondate di calore, alluvioni e siccità mostrano chiaramente che l’attuale struttura urbana è inadatta. Il problema è noto, ma le trasformazioni tardano ad arrivare.
Elena Granata: “Le città devono diventare spugne” – Secondo Elena Granata, urbanista e docente al Politecnico di Milano, «le città devono cambiare il loro vestito, che non è più adatto. Devono diventare spugne capaci di abbassare la temperatura, assorbire, drenare». Elementi naturali come prati, terra e alberi svolgono questa funzione. Prosegue: «La direzione attuale di continuare a consumare suolo e a costruire è pericolosissima» e denuncia come si preferisca costruire nuovo, anziché recuperare milioni di vani inutilizzati. Granata propone quindi di rigenerare il costruito, adottando soluzioni basate sulla natura. Queste trasformazioni devono partire dal basso, spingendo i cittadini a pretendere cambiamento dalle amministrazioni.
Cosa può fare la mia città, subito e a basso costo? Pescara, città media con 120.000 abitanti, contribuisce ovviamente al debito ecologico e ne subisce gli effetti. Applicando il modello della città spugna e agendo su ciò che già esiste, potrebbe attuare azioni rapide, economiche e coerenti con la disponibilità di risorse presenti:
- depavimentazione mirata: rimuovere asfalto da aree non essenziali (parcheggi, piazzali inutilizzati) per favorire l’assorbimento dell’acqua e ridurre il calore;
- più alberi, migliaia, subito: piantumazioni rapide lungo vie e spazi pubblici, scegliendo specie autoctone e resistenti alla siccità;
- giardini inondabili e verdi urbani: realizzare microspazi verdi permeabili nei quartieri, anche attraverso urbanistica tattica partecipata;
- recupero del patrimonio edilizio esistente: stop al nuovo consumo di suolo. Ristrutturare integrando verde (tetti verdi, pareti vegetate) ed efficienza energetica;
- comunità attive: coinvolgere scuole, associazioni e comitati di quartiere nella trasformazione di micro-spazi cementificati in giardini condivisi.
A questo punto mi chiedo: Pescara conosce la sua impronta ecologica? Qualcuno l’ha calcola? Pescara conosce davvero quanto consuma? Quante risorse utilizza oggi che non le appartengono, che dovrebbe lasciare a chi verrà dopo?
- quanta energia consuma in eccesso rispetto al limite rigenerativo?
- quanta acqua sottrae senza un ciclo di restituzione o risparmio?
- quanto suolo ha impermeabilizzato, e quanto ne potrebbe liberare?
- quanti rifiuti produce ogni anno e quanti ne evita realmente attraverso il riuso e il riciclo?
- quanta biomassa vegetale ha perso nel tempo, e quanta ne ha reintrodotta con politiche attive?
A queste domande dovrebbe corrispondere un bilancio ecologico urbano trasparente e aggiornato. Ma esiste? E se non esiste, come si misura oggi la sostenibilità urbana? Come si valuta la distanza dal limite dell’Overshoot locale? Una città che non conosce il proprio impatto non può pianificare seriamente il proprio futuro. È necessario dotarsi di strumenti di rendicontazione ambientale, come:
- bilanci ecologici periodici;
- indicatori locali dell’impronta ecologica (suolo, energia, rifiuti, acqua);
- mappatura della natura urbana (verde, alberature, biodiversità);
- trasparenza nei dati ambientali pubblici.
Solo conoscendo i propri confini ecologici locali, le città, e quindi le amministrazioni locali e la cittadinanza, potranno orientare le politiche urbanistiche, energetiche, ambientali e di giustizia sociale verso un modello di sobrietà rigenerativa, fondato sul principio che non si può più vivere oggi con il credito delle generazioni future.