Lo scarto stradale
Forse la foto, scattata una decina di giorni fa mentre si spostavo in bicicletta, racconta molto più di quello che mostra. Un tasso, riverso sull’asfalto del lungomare di Pescara, quasi al confine con Francavilla. Un corpo immobile, disteso accanto a un tombino, al margine della carreggiata, addossato al cordolo urbano del marciapiede. È l’ennesima vittima silenziosa di una mobilità che ignora, di un territorio che respinge. Un animale notturno e solitario, che probabilmente scendeva dalle colline retrostanti, attratto da qualcosa, da un odore, da un istinto. E invece ha trovato l’impatto, la fine e poi l’indifferenza.
Non è un caso isolato. Chi vive questi territori sa che non è raro incontrare — o meglio, ritrovare — corpi di animali selvatici investiti sulle strade. Dopo i gatti, tassi, istrici, volpi, faine, ma anche ricci, serpenti, uccelli. Una volta ho intravisto persino un istrice infilarsi sotto un’auto parcheggiata nella zona di Zolle Breccia. Episodi che non fanno notizia, ovviamente, ma che messi insieme raccontano di una frattura profonda tra l’uomo e la natura che ancora sopravvive, ai margini, negli interstizi urbani, nelle aree verdi residuali.
La Riserva Dannunziana, già martoriata da incuria, incendi e cementificazioni, è circondata e oggi di nuovo attraversata da strade, come il cosiddetto “pendolo”. Gli animali che tentano di entrare o uscire da questi spazi verdi vengono spesso intercettati da veicoli dall’impatto, seppur a velocità urbana, quasi sempre letale. La città si comporta come un corpo rigido e impermeabile, respingendo ogni forma di vita che non sia quella codificata dall’asfalto e dalla segnaletica.
L’impressione è che non vi sia nessun tentativo di progettare una possibile convivenza! nessun passaggio protetto per la fauna, nessuna segnaletica di avviso, nessuna mappatura dei punti critici. Si continua a progettare infrastrutture come se il territorio fosse vuoto, neutro, inerte. Come se non ci fossero sentieri invisibili che colleghino colline e mare, come se la biodiversità fosse un problema, un fastidio, un ostacolo alla mobilità.
E così, ogni collisione diventa una piccola tragedia ignorata. Lo scenario finale è sempre quello: un corpo da spazzare via, uno “scarto stradale” da rimuovere, che sia un animale o — nel peggiore dei casi – una persona vulnerabile. La logica è la stessa: il più debole paga il prezzo dell’invisibilità.
Serve una diversa cultura del territorio, una visione che riconosca il diritto alla mobilità non solo per le persone, ma anche per le altre forme di vita. Serve un’urbanistica ecologica, sensibile, capace di connettere anziché recintare e dividere. Nel caso di animali, servono corridoi ecologici, sottopassi, attraversamenti faunistici: un tasso morto sul ciglio di una strada è il segnale che qualcosa, nella nostra idea di convivenza, si è perso.
E forse è ora di fermarsi, soprattutto scendere dall’auto (perché a piedi e in bici il mondo è diverso), guardare quel corpo e chiedersi: che cosa stiamo facendo al nostro territorio? E soprattutto: quanto a lungo potremo ancora far finta di non vedere?